Amore del concreto e situazione nella prima critica desanctisiana (1942)

Amore del concreto e situazione nella prima critica desanctisiana, «La Nuova Italia», a. XIII, n. 3-4, Firenze, marzo-aprile 1942; saggio poi ripubblicato in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693, e in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia cit.

AMORE DEL CONCRETO E SITUAZIONE NELLA PRIMA CRITICA DESANCTISIANA

Se l’effusione romantica, il gusto dei contrasti grandiosi, la sicura influenza hegeliana portano spesso nella critica desanctisiana ad una prevalenza di quadri culturali, di soluzioni schematiche, è pure una sicura caratteristica romantica la ricerca desanctisiana del concreto, la richiesta di una espressione non astratta, di una forma la cui perfezione non abbia nulla a che vedere con il rabesco calligrafico. Il giovanile entusiasmo romantico aveva il gusto di un assalto unitario a tutte le varie direzioni vitali che poteva trovare nella poesia e, mentre cercava disperatamente un sentimento veramente vivo nella sua figura concreta, non poteva mai esimersi dal cercare nel particolare l’ansia dell’universale. Duplice tendenza che doveva sopravvivere e volgarizzarsi dove del romanticismo rimaneva solo l’impeto a vuoto, il soffio avvelenato di uno «Streben» ad ogni costo. E nel De Sanctis il primo termine aveva trovato una naturale rispondenza nella sua attenzione istintiva al verificare la realtà prima delle leggi, che permetterà il provvisorio compiacimento per il verismo degli ultimi anni.

Tale prevalente gusto del concreto, anche se accompagnato dal bisogno di trovare nelle personalità dei simboli storici, ci permette anche, nello studio della sua opera, di derivare le sue carenze filosofiche dal suo interesse essenzialmente critico. Se le sue intuizioni e le idee che si possono estrarre dal pieno della sua critica permisero al Croce di includerlo nella Storia della Estetica, noi sentiamo di trovarci con lui di fronte non ad un sistematore di idee (quello che sarà Croce), ma ad un critico: idee, speculazioni sull’arte son sempre in funzione di un intento o di un istinto critico, controllate dal gusto e dall’immediata esperienza della storia letteraria. «Il critico si deve fare la coscienza e l’occhio di quella produzione dell’ingegno umano che vuole esaminare. Deve prendere l’autore e rifarlo vivo come fu nei misteri della sua produzione. La critica comprende ed alla comprensione segue il giudizio. Ogni produzione quindi ha la sua critica speciale»[1].

Qui l’oggettività idealistica raggiunge l’intenzione programmatica piú sicura: ogni preconcetto, ogni schematismo viene eluso da una tensione cosí diretta alla immedesimazione del critico con l’artista, quasi sua coscienza riflessa. Posizione in cui ogni contrasto fra critica estetica e storica cade, se per storia si intende svolgimento dello spirito di cui il critico ricrea un particolare momento e in esso giustifica una personalità artistica verso cui è spinto da una sorta di essenziale amore di comprensione.

Già nel periodo in cui il giovane seguiva la scuola puristica del Puoti, egli sapeva trarre da questa, piú che regole morte, il nutrimento di una lingua esperimentata nei suoi testi. Il purismo, sterile ed assurdo in teoria, poteva essere una seria scuola di letteratura, di sforzo di espressione, di contatto diretto con i testi nel loro tessuto linguistico, e in quella scuola anche se si parlava di stile, di forma come di una veste staccata dall’anima dell’artista, in pratica era possibile agli scolari piú intelligenti scavare, sentire questo linguaggio di scrittori trecentisti e cinquecentisti come esperienza personale di un’arte e di una spiritualità, come presa di coscienza della nostra letteratura classica, della nostra tradizione letteraria.

E quando nel ’39 il De Sanctis comincia il suo vero insegnamento e cioè (tanto coincide in lui il maestro con il critico) la sua vera formazione critica, il primo corso che ci rimane, sunteggiato dal Croce[2], è sí un corso di grammatica secondo le direttive del Puoti, ma con un’impostazione piú vichiana di quanto ci si poteva aspettare dalle premesse di esemplarità grammaticale di uno scolaro del purismo.

La grammatica infatti non è sentita tanto come successione di regole, ma come riflessa schematizzazione di un’espressione di pensiero: «poiché la grammatica concerne l’espressione del pensiero, non cominceremo dalle lettere per passare alle sillabe, alle parole, alle frasi, né divideremo l’etimologia dalla sintassi, ma cominceremo dalla prima manifestazione del pensiero umano»[3]. Sia pure in maniera ingenua e un po’ naturalistica, il giovane critico sentiva la natura estetica del linguaggio ritrovandola inizialmente in quello primitivo: «Le lingue primitive furono piú robuste ed energiche e, in una parola, piú poetiche delle moderne nelle quali l’intelligenza è molto cresciuta e la fantasia scemata»[4]. Ed il purismo viene sentito come proprietà (ogni lingua è pura, dice esplicitamente nel corso del 1840) e come tradizione, cioè nel suo possibile valore di gusto di una concreta lingua letteraria, non come assurdo ritorno a modelli prefissati.

È nel corso seguente sullo stile che il De Sanctis mostra piú chiaramente la feconda incertezza teorica in cui da principio si dibatteva: da un lato intuizioni che procedono da un gusto e da una intelligenza diretta al concreto, dall’altro partizioni, suddivisioni scolastiche dell’attività artistica, ipostatizzazioni di generi e di qualità retoriche. Lo stesso uomo che coglie cosí bene l’inutilità di ogni insegnamento retorico («il Blair ha torto di dire che le regole rettoriche insegnano a ben pensare: anzi il ben pensare porta al bene scrivere»[5]) e che uscendo dal purismo lo trasvalora in un senso cosí concreto, si indugia poi a distinguere il bello, il sublime, il bello sensibile, il bello fantastico, il bello morale, indagando materialisticamente quali sensi siano piú estetici.

Mostra cosí che, mentre la sua genialità lo porta innanzi a precorrere ogni spunto nuovo dei suoi contemporanei, la sua formazione è ancora però antiquata, settecentesca. E che questo limite culturale non è ancora del tutto spezzato da un intero romanticismo che verrà radicato in lui dall’esperienza piú dolorosa della vita e da una diversa cultura meno retorica.

Il contatto con A.W. Schlegel è il primo importantissimo contatto col romanticismo tedesco e rivela subito nel De Sanctis la capacità di selezione dei motivi vitali da ogni schematismo inaccettabile al suo grande senso del concreto. Le sue lezioni diventano piú specificamente di critica letteraria: esame della lirica di Dante, della lirica del Petrarca, in cui è già il germe dello studio maturo e il germe di tutta la sua critica romantica, con la decisa intenzione di affondare la sua indagine nel pieno della poesia o meglio dell’anima del poeta: «Noi non istaremo contenti, come altri critici, a lodare la soavità, la grazia, l’armonia, insomma l’esteriorità del Petrarca, e cercheremo di investigare il concetto e l’essenza della sua poesia»[6]. Qui si vede come il De Sanctis sentisse ora il dissidio fra una forma-esteriorità, cioè non forma, ma ornamento, e la vera forma che per reazione egli chiama anche «concetto»: questa sarà la via per giungere a cogliere nel poeta il nucleo sostanziale, che solo spiega, fuori di ogni esercitazione retorica, tutti i particolari risultati artistici.

E si delinea già la ricerca della «situazione»[7] come della fonte della poesia, come di quel punto in cui un contenuto astratto si fa concreto, vitale. Si può subito dire che la «situazione» si chiarisce fin d’ora come uno strumento critico, un mezzo di lavoro che il De Sanctis non ipostatizza come ricerca unica e finale della critica: serve alla critica, è il punto di partenza psicologico proiettato in un campo estetico, ed aiuta a comprendere da un lato la genesi dell’opera d’arte dallo stato d’anima dell’autore (esigenza fortemente romantica), e dall’altro permette lo studio dei concreti momenti poetici come modificazioni di questa situazione base: cosí, per stare alle lezioni sul Petrarca, dalla costatazione della situazione di contrasto, il De Sanctis passa all’analisi dei vari atteggiamenti che essa assume nel corso del Canzoniere e alle varie soluzioni artistiche (qui ancora poco accennate) che il Petrarca dà loro. Insomma, se la «situazione» fosse un punto di arrivo e non un motivo funzionale dell’indagine desanctisiana, egli potrebbe aderire alla pretesa monotonia del Canzoniere affermata dallo Schlegel, il quale, per mancanza del senso della forma, e non trovando nel Canzoniere un’azione esteriore, concludeva per una monotonia di situazione e quindi con una condanna. Il De Sanctis invece già fin d’ora sa sentire la vita della «situazione» proprio nell’individualità della forma, per cui tante canzoni di apparente ripetizione vengono sentite diverse, nuove, in quanto approfondimenti essenziali di una situazione solo apparentemente uguale: poiché la forma è sempre piú vivamente percepita dal De Sanctis, anche la situazione si adegua ad essa, si muove, si chiarisce in un piano intenzionalmente tutto estetico.

Ciò si può vedere meglio dall’alto, nell’ultimo periodo della critica desanctisiana. Ma fin d’ora si può insistere su questo cammino della «situazione»: in un primo momento di reazione al purismo formale, la forma vien detta esteriorità (e lo era, messa in questi termini) e il concetto vien detto essenziale; il concetto poi si esplica nella «situazione», che è il contenuto psicologico (nel caso del Petrarca) o il riflesso di tale contenuto in un’azione drammatica. Insomma questa «situazione» è già molto piú forma di quanto possa apparire ad un esame superficiale, ma quando nel successivo svolgimento desanctisiano il senso della forma sarà maggiore, quell’esteriorità formalistica di prima si vanifica anche come opposizione, e la situazione si riempie totalmente dei caratteri della forma.

Il romanticismo cominciava cosí ad agire potentemente in lui come spirito incompatibile con il metodo formalistico precedente: ché spesso il merito del romanticismo è quello di avere mosso le acque, introdotto un’energia vitale, disordinata, incompleta, ma che permette poi risultati che non possono piú coincidere con quelli del periodo cui il romanticismo si oppose.

Il De Sanctis, che ha il grande merito di aver tratto motivi culturali da tutto il pensiero europeo, veniva sempre piú ripudiando i preconcetti, le forme ormai vuote della critica classicistica, puristica, cioè non critica, ma precettistica, avvicinandosi sempre piú alla storia letteraria come storia dello spirito e approfondendo questa storia nel suo momento estetico. L’influenza dello Schlegel e della sua Geschichte der dramatischen Literatur è, in questo senso, essenziale, dato che il romantico tedesco vi affermava la relatività di ogni opera di arte al tempo in cui sorse ed escludeva risolutamente un ideale unico e fisso, trascendente la perenne verità e varietà della storia.

Il frutto di questo primo contatto con il romanticismo europeo lo portava, come già vedemmo, ad una valorizzazione del «contenuto» di contro alla forma intesa nel senso puristico, contenuto che di fronte a quella forma esteriore è niente altro che il contenuto spirituale, il nucleo essenziale dell’artista, ed è cioè pronto a diventare, di fronte ad una maggiore coscienza filosofica, quel tutto che è la personalità del poeta in quanto tale, cioè il principio stesso della sua forma. Si ascoltino le conclusioni cui il De Sanctis giungeva nel suo corso sul genere narrativo: «1) Descrivendo le forme del contenuto, nessun poema può essere tipo e modello di tutti gli altri, perché ciascuno ha un contenuto suo e perciò forme sue; 2) In poesia non ci sono tipi, ma individui e nessun individuo assomiglia a un altro. I tipi sono astrazioni della critica. Le regole sono anch’esse lavoro posteriore all’arte e perciò sono anch’esse astrazioni. Perciò il vero in arte non è assoluto come in scienza, ma è relativo al contenuto nelle condizioni in cui lo concepisce il poeta»[8].

È per merito di questo contatto del De Sanctis con le sorgenti critiche dal romanticismo e proprio con lo spirito del romanticismo, che egli passò dalla grammatica e dalla eloquenza alla vera critica letteraria. Cosí possiamo valorizzare le sue lezioni sui generi letterari come preannunci della Storia della letteratura italiana, e della Letteratura italiana nel secolo XIX.

Nel corso sulla lirica, il genere, la realtà delle suddivisioni in lirica religiosa, morale ecc. riescono ancora ad imporsi tanto in lui, da fargli premettere ad alcune buone osservazioni sugli Inni sacri un lungo discorso sulla poesia ebraica come necessario a comprendere il Manzoni; ma, a proposito del Leopardi, accanto a molte incertezze (come quando dice del Consalvo «poesia che basta da sola a mostrare quale grande poeta sia il Leopardi»), si possono rilevare alcune note finissime sull’arte leopardiana: «Se al Tasso è necessario per dipingere Clorinda un intero episodio, al Leopardi per le sue Nerine e Silvie, bastano pochi tratti cosí veri che determinano e individualizzano un essere poetico»[9].

Abbiamo visto come nel primo periodo napoletano, dopo l’insegnamento puristico del Puoti, nelle lezioni tenute dal ’39 al ’48, il De Sanctis andasse evolvendosi da un’aderenza al purismo, prima piú e poi meno sentita, ad una accentuazione dell’arte sempre piú profonda e romantica, soprattutto mediante l’espediente critico della situazione. In un primo momento, per reazione al vuoto formalismo, il De Sanctis accentua il contenuto, l’umanità dell’autore di contro a quella esteriorità che sarebbe la forma intesa nel senso consuetudinario e lavora su tale contenuto come sul pieno della poesia: basterà poi una maggiore maturità perché egli comprenda che questo contenuto è tutt’uno con la forma, è anzi la forma stessa di fronte alla quale si è completamente volatilizzata la falsa forma contro cui era partito in battaglia.

E abbiamo visto quanto avesse contribuito il romanticismo a tale liberazione dal purismo e dalla maniera critica tradizionale, collaborando con quella progressiva esperienza della letteratura e della storia, che risponde al bisogno piú intimo della sua personalità.

Una riprova di come nel De Sanctis un sano romanticismo accoppiasse l’amore per una connessione filosofica con il gusto dell’individuale concreto è costituita dai rapporti con la filosofia di Hegel. Fin dal primo momento si può notare, accanto all’entusiasmo per una ricchezza ideale, quella certa sana diffidenza verso la dottrina di Hegel in quanto inapplicabile alla critica. Parlando della lirica, della sua presente vitalità, critica l’hegelismo che a tale attualità della poesia si opponeva: «Hegel fondatore e capo della scuola moderna sostiene che ha percorso tutti i suoi vari cicli e che il presente è l’ultimo di questi e perciò l’umanità si è fermata. E per la poesia in genere e per la lirica viene negata ogni possibilità di progresso. L’epica e la drammatica, secondo Hegel, finiscono nella prosa e seguono ormai le sorti di questa, ma per la lirica non c’è scampo. Il presente lirico è finito, tutto è prosa. E se oggi si vuol innalzare qualche grido lirico, bisogna rivolgerlo al passato, ai tempi di Grecia e di Roma, perché il presente non può piú ispirarlo. Questa dottrina di Hegel e della sua scuola è falsissima. Anzitutto l’impressione è sempre del presente anche quando l’azione che ne è la causa sia passata ed antica... Ma poi, negare che oggi possa darsi poesia lirica, è contraddire apertamente i fatti... Leopardi e Manzoni non protestano contro allo Hegel ed a tutti i suoi seguaci? V’ha d’uopo di altro per confutare costoro?»[10]. Questo brano chiarisce la qualità dell’apporto di Hegel e la natura piú vera del De Sanctis, che si oppone alle conclusioni rigorose della dialettica applicata alla storia dello spirito mediante un sano controllo della realtà della poesia: le conseguenze astratte hegeliane non potevano aver nessuna presa sul critico che sta alla testimonianza della poesia in concreto. Dice il De Sanctis nel ’79, nella conferenza sul verismo zoliano: «E chi mi ha seguito nella mia vita intellettuale, vedrà che sin da quel tempo che Hegel era padrone del campo, io ho fatto le mie riserve e non ho accettato il suo apriorismo, la sua trinità, le sue formole»[11]. Ma l’influenza vera di Hegel fu la spinta a speculare direttamente sull’estetica, a dare una base filosofica alla sua critica: non dunque tanto adottare integralmente l’hegelismo, quanto trarne lo spunto per una certezza filosofica su cui basare il proprio metodo critico.

È cosí in diretto rapporto al suo studio dell’«Estetica hegeliana» che nel 1844 il De Sanctis inizia un vero e proprio corso sull’estetica, lontano ormai dal purismo, desideroso di sviluppare quell’innato bisogno di una fase filosofica senza la quale la sua grande pratica critica gli sembrava empirica: la teoria viene limata in base all’esperienza viva della letteratura, e l’esperienza non resta suggerimento di considerazioni puramente empiriche, investita com’è dalla luce della teoria.

Tanta fu l’impressione che il De Sanctis riportò dell’Estetica hegeliana, che nel ’45-46 il corso che verteva sulla storia della critica (il titolo stesso ci dice il progresso fatto dal De Sanctis dai corsi sulla Grammatica e sullo Stile a questo che ha un deciso carattere storico e impegnativamente critico) fu visto con un forte movimento dialettico e come preparazione alla formulazione hegeliana. Cominciava dalla storia della critica antica, in cui vedeva come punti essenziali Tacito perché con lui la critica divenne storica, gli Alessandrini in reazione all’intellettualismo aristotelico, pieni dell’impressione e del gusto dell’arte. Esaminava i trattatisti del ’500, gli estetici del ’700, le parzialità di quelli contro la certezza storica dei nuovi. E dimostrava una chiara coscienza romantica del nuovo acquisto nel campo critico; «il Vico per primo aprí un indirizzo (proseguito poi in Germania) che rende possibili le spiegazioni di tutte le azioni e di tutte le opere d’arte, nel quale non si passa da scuola a scuola, secondo gli individui, ma da civiltà a civiltà. In questa concezione i capolavori delle civiltà anteriori non vanno perduti perché restano come monumenti di civiltà. Alla vita degli autori Vico sostituí la vita dei popoli, alla biografia la storia: cosí la critica divenne veramente storica»[12]. Merito essenziale del Vico ma non posizione di arrivo come quella di Hegel. «Gli aristotelici considerarono l’arte negli artifici esterni, i francesi la videro nell’uomo; gli alemanni nella società; e queste tre scuole si fermarono nel principio della critica subbiettiva. Oggi deve vedersi, se l’arte possa essere considerata in se stessa, fuori dello spazio e del tempo: e questa considerazione obbiettiva dell’arte va unita al nome di Hegel»[13].

Ma nella stessa esposizione dell’Estetica hegeliana, di cui abbiamo solo parzialmente gli appunti, si vede come il De Sanctis la utilizzasse per il suo speciale interesse di critico: piú che insistere su ciò che dell’Estetica forma l’attacco con tutto il sistema filosofico, egli insiste sullo spirito romantico che la informa, sull’espressività dell’arte come sua caratteristica («Hegel si pone tra l’una e l’altra scuola (cioè la winckelmanniana e la naturalistica) e, facendosi piú dall’alto, dice ch’è artista chi ha la potenza di manifestarsi, che è libero e può incarnare nell’azione ciò che ha nell’immaginazione»[14]); oppure mette in rilievo, poiché serve al suo metodo critico in formazione, la maniera con cui per Hegel l’ideale si incarna nel reale, cioè nella situazione e nell’azione, sintetizzate nella parola «carattere», e nell’accento che distingue un certo personaggio, una certa figura; o insiste sulla creatività dell’arte e sul valore romanticissimo dell’esperienza. «La fantasia dell’artista non riproduce, ma crea, ed essa è propriamente l’attitudine che l’uomo ha di creare, ma, perché quest’attitudine diventi atto, l’artista deve aver molto veduto ed osservato, si richiede che abbia conoscenza del mondo reale»[15]. Insomma il De Sanctis, piú che esporre il sistema hegeliano nel suo puro valore filosofico, lo rileva nei significati piú romantici e funzionali ad una pratica della critica, ne corrobora le proprie convinzioni artistiche, e piú che una teoria della critica fonda la possibilità della propria critica, dandole basi filosofiche e rinforzandola con i risultati dei critici contemporanei, che mette in confronto, per vederne reciprocamente le manchevolezze, le esigenze e poter risalire ad un proprio risultato in vista di un metodo critico concretamente applicabile.

Di Hegel egli valorizzava in massimo grado l’autonomia dell’arte («la libertà e la spontaneità della concezione artistica è idea propria di Hegel») e l’idea del progresso nella storia. Mentre, per sfuggire alla morte dell’arte, De Sanctis immagina una poetica inquietudine nella lotta della scienza con l’arte, dell’intelletto col cuore, una sorgente romanticissima d’arte che trova il suo esponente massimo nel Leopardi. D’altra parte (egli dice): «non è in tutto vero che l’arte e la scienza debbano andare scompagnate e che dove l’una entra l’altra sparisca:... se la scienza analizza ciò che nell’arte è sintesi, non per tanto l’una e l’altra hanno uno stesso scopo e procedono ugualmente»[16] (c’è qui un reale tentativo per dare alla successione hegeliana arte-filosofia, un significato solo ideale, non cronologico). «Il sistema dell’analisi aveva prima sminuzzato la scienza ed oggi si fa ogni sforzo per unificare. La religione, l’arte e la filosofia oggi tendono ad unirsi, e ciò dimostra chiaramente l’invasione della filosofia nella poesia e di questa nel campo di quella. All’analisi nuda si sono sostituiti certi dati, il sentimento di certi principii, la fabbrica di sistemi che sono tanti poemi epici» (una bella frase che illustra lo sforzo essenziale del romanticismo a dare un’espressione totale, estetica e piú che estetica). Ora Hegel, per il De Sanctis, aveva avuto il torto di considerare l’arte nel suo stato, diremmo noi, apollineo, nell’armonia dei greci: «egli Hegel, vuole che l’artista debba essere inconsapevole dell’idea che riveste, che quell’inviluppo nel quale l’idea si manifesta debba essere misterioso, ma che l’idea ci sia. Ora è chiaro che col Romanticismo questa spontaneità è finita, che alla fantasia si è sostituito il cuore e il sentimento: ora se Hegel pose l’arte nella spontaneità, ossia in quel corpo fantastico che inconsapevolmente riveste l’idea, cessato questo felice stato dell’arte, naturalmente egli doveva giungere alla conseguenza che l’arte oggi è morta»[17].

In tale maniera il De Sanctis spiegava l’atteggiamento hegeliano, ne traeva il massimo succo filosofico e spirituale, ma si apriva anche la via ad un’eternità dell’arte cui lo aveva indotto, come già vedemmo, l’invincibile senso concreto dell’arte contemporanea romantica. Dopo aver infatti combattuto gli hegeliani puri per cui l’arte è morta, e gli hegeliani incerti che non hanno voluto accettare l’ultima, logica conseguenza, si differenzia chiaramente da questi dando dell’arte e della sua relazione con le altre attività dello spirito un significato differente da quello hegeliano, sicché, sfuggendo la pura e semplice empiria che come tale è astrattezza, e pur rifiutando ogni conseguenza in realtà non provata, il De Sanctis riusciva ad un metodo concreto basato filosoficamente, ma a continuo contatto col senso della realtà. «E però noi riconoscendo che l’arte secondo Hegel è morta, ci faremo poi a dimostrare che è viva, che anzi è bambina, e nata a nuova vita con gli ultimi poeti, in quanto essi e tutti gli uomini si sono rivolti all’enigma dell’universo e si sforzano di raggiungere il problema dei destini dell’uomo»[18]. Era dunque un vecchio concetto dell’arte come pura veste esteriore, come idillio ornamentale che il De Sanctis riconosceva morto, non l’arte nella sua eternità che continuava a vivere nei poeti romantici. Anzi la nuova arte (cioè in realtà la nuova poetica) sembrava reagire ad un vano formalismo, sembrava ad ogni costo voler afferrare vita, concretezza, personalità oltre la pura regola letteraria, sembrava opporre come essenziale un contenuto personale che naturalmente non era mai mancato, ma che veniva affermato piú intenzionalmente.

È dunque il romanticismo di questi anni (romanticismo vissuto nella sua interezza sino alla prigione e all’esilio) che porta il De Sanctis a tale salvazione dell’arte e che anzi lo porta quasi ad assumere l’arte romantica come immanente ad ogni vera arte di ogni tempo. Infatti, la fantasia, in cui Hegel faceva consistere l’arte, è per il De Sanctis morta come assoluta creazione inconsapevole, ma permane come punto di partenza dell’artista («nel Consalvo la fantasia è punto di partenza del poeta, è occasione, non essenza della poesia, e tolti il principio e la fine, resta poi la situazione, il cuore, l’uomo reale in un campo fantastico») oppure è il bisogno che abbiamo del sensibile per vestire e rivelare l’intelligibile (la Ginestra è di questa natura): «il fantastico è solo di alcuni tempi, il reale di tutti i tempi»). Frasi tutte che ci dimostrano appunto quanto romantico fosse il senso della poesia nel De Sanctis dopo i contatti con i romantici tedeschi e lo svolgimento del suo nucleo spirituale attraverso l’esperienza concreta della poesia e specie della poesia leopardiana. Ché è proprio tipica espressione della poetica romantica una realtà intensa come «cuore, sentimento» e romanticissima la ricerca di una espressione che sia unità germinale di filosofia e poesia.

Le ultime parole che ci restano di questo corso importantissimo sull’Estetica hegeliana sono: «Ci resta ora da stabilire l’essenza dell’arte»[19]. Ma da quanto abbiamo visto finora si può ragionevolmente arguire che il De Sanctis non avrebbe forse aggiunto molto di piú a quello che noi riteniamo essenziale in questo momento del suo pensiero. Si può immaginare solo che vi sarebbero stati affermati con particolare vigore e con intento piú chiaramente estetico alcuni risultati hegeliani coincidenti con convinzioni e presentimenti personali.

L’attenzione grandissima posta dal De Sanctis alla filosofia hegeliana non si esaurisce però con questo corso di Storia della critica: costituirà anzi lo studio degli anni di prigionia e già fin d’ora continua nelle lezioni del ’47 sulla Filosofia della Storia e la Storia. Anche questo corso ci rivela un De Sanctis completamente nell’ambito idealistico-romantico, con una visione della filosofia della storia in funzione (attraverso Vico e Herder) della illuminazione hegeliana, da cui conclusivamente assodava che «la ragione governa la storia, che questo progresso è subordinato a quello dell’umanità...». E nello stesso anno il De Sanctis svolse un corso sulla poesia drammatica di cui ci interessano soprattutto le premesse teoriche in cui il nostro arriva ad una dialettica dei generi letterari cercando in tal modo di conciliare il carattere autonomo di ogni genere con il complessivo progresso dello spirito rinsaldato in lui dalle letture di Hegel.

C’è la prima pagina che vale la pena di rileggere perché mette in rilievo l’importanza di Hegel per lo sviluppo desanctisiano e chiarisce la concezione dei generi letterari in questo momento formativo. «La critica della quale trattammo, ci si presenta dapprima nella dottrina di Aristotele, come una raccolta di regole particolari, mostrando cosí la tendenza della critica ad abbracciare tutti i tempi; e si giunse per tal modo alla retorica alemanna che pose il vero e il bello come fine della storia. E venne infine Hegel che movendo da altissimi principii, fece scomparire tutte le differenze che agitavano le scuole. Io, alla natura storica del principio dell’Hegel, sostituirò un principio filosofico che è quello che ci diede modo di entrare nella letteratura e di studiare la nuova critica. (Qui malgrado l’eccessiva baldanza dell’espressione non si può intendere, per quel principio filosofico di cui si parla, se non la affermazione già rilevata che arte e scienza coesistono). ...Tre gradi sono nel cammino dello spirito: il primo di poesia pura, quando l’uomo concepisce le cose tutte fantasticamente; il secondo, in cui si comincia ad alterare la poesia con la prosa, mercé l’affermarsi del bello morale e il cangiarsi del vero in bello. E verrà forse il tempo innocuo; anche la scienza farà parte della poesia e spariranno le antiche differenze e non vi sarà che il solo aspetto della poesia. (Strano paradosso ricalcato per antitesi su quello hegeliano della morte dell’arte). Nel primo stato dell’uomo, in quello di poesia pura, è la lirica: la meraviglia è il suo sentimento, l’interiezione è la sua voce: l’uomo non può guardar fisso nella natura perché ne è abbarbagliato e accenna confusamente ciò che vede, la bellezza della natura e canta l’amore e la gioia. Ma poi la meraviglia viene cessando, e l’arte dalla forma lirica passa alla narrativa, che, prendendo ad argomento le imprese degli eroi e degli dèi, produce il poema epico, l’epopea, o, parlando del cuore umano, il romanzo (si noti come il romanzo è definito romanticamente); o facendosi severa espone la storia dei popoli. La terza forma che l’arte prende è drammatica, che non è semplice, ma composta di azione, carattere ed affetto; delle quali cose la prima corrisponde al genere narrativo, la seconda manifesta il cuore dell’uomo, e la terza spiega i sentimenti. Cosí l’arte compie tutto il suo giro, ed abbiamo veduto che il dramma, come sintesi, appartiene principalmente ai tempi inciviliti e culti»[20].

Non occorre rilevare quanto sia romantico questo riconoscimento al dramma di maggiore complessità, quasi di sintesi di ogni altra forma letteraria. Ma, d’altra parte, contemporaneamente il De Sanctis riusciva ad avvicinarsi al concreto di ogni opera d’arte, studiata entro questi schemi di cui minava, senza accorgersene teoricamente, la realtà trascendente di per sé stante. Parlando del genere, del genere drammatico ad es., oltre a darne degli illusori caratteri e degli avvicinamenti storici di tecniche, valevoli criticamente, raggiunge lo scopo di sbarazzare il terreno da moltissimi pregiudizi cresciuti con l’educazione retorica, umanistica. Cosí, parlando del famoso diletto provocato dal dramma, esclude ogni ragione esteriore (l’esser noi fuori delle calamità che si rappresentano, la vittoria della virtú sul vizio ecc.) e dice: «l’uomo prova il bisogno di essere artista, e di lasciar libero corso alla fantasia e per quello stesso piacere che danno tutte le opere d’arte, liete o tristi che siano, si assiste con piacere al dramma... La spiegazione completa di questo piacere non si può avere se non dall’indagine sulla natura della poesia»[21]. Con la quale frase si riporta ogni discussione sul dramma in puro terreno estetico: «Degli accidenti fortuiti che non sono contenuti nell’azione principale, ora si fa abuso, col principio che il dramma debba ritrarre la realtà. Ma lo scopo dell’arte non è la realtà, sibbene l’illusione (realtà artistica non naturalistica). Circa la durata e l’azione, un pregiudizio, intrattenuto a lungo, ha a lungo tarpato le ali agli ingegni. Ma ora sarebbe pedanteria parlarne. Facendosi appello alla illusione, si restringeva l’azione a ventiquattr’ore. Chi non vede quanto ciò sia arbitrario? Altro errore è di coloro che concepiscono l’azione come un panorama di scene diverse e di parti staccate. L’azione comincia e finisce col cominciare e finire della situazione»[22].

«Altra questione vana è ricercare se fu bene o no riprodotto il mondo antico: la sola questione seria è se si abbia innanzi una creazione poetica e tragica, ed è indifferente se la verità teorica sia stata o no osservata»[23]. Mentre dunque egli era ben lontano da una adorazione della realtà esteriore (tale è anche la storia in quanto materia d’arte) e sentiva il valore assoluto della poesia, era spinto dai motivi romantici (non tanto strettamente culturali quanto spirituali) a cercare un punto concreto di partenza per la sua critica, una approssimazione non formale, un organismo non stilizzato già precedentemente, una realtà sentimentale che nello stesso tempo si atteggiava già come desiderosa di espressione, come nucleo personale che vuole viversi, realizzarsi non praticamente: la situazione. E, proprio alla fine di questo primo periodo giovanile precedente la prigione e l’esilio, il De Sanctis tenne delle lezioni sullo Shakespeare, come sull’esempio vivente della sua concezione romantica. Shakespeare era stato già scoperto per gli Italiani dal Baretti nel ’700 e da allora il nuovo gusto preromantico e romantico aveva sempre piú diffuso l’amore per quella poesia. Ma il De Sanctis è il primo che giustifica dal profondo dei motivi romantici piú intimi la grandezza del poeta inglese. Proprio perché in lui è tanto piú visibile l’incontro di una estrema vitalità universale nella determinazione concreta di una situazione.

Quando nel ’58, nelle pagine ricavate dal Croce dagli abbozzi per le «Lezioni su Dante», il De Sanctis si staccava risolutamente dall’estetica hegeliana come da un astratto contenutismo che in poetica conduceva ad un ritorno alla poesia didascalica, egli riprendeva appunto quell’amore dell’individuo, del concreto che lo aveva condotto alla formula della situazione come conciliazione di universale e di particolare, limite vivo entro cui l’universale si fa particolare. Allora il critico era andato piú avanti e l’espediente della situazione impallidiva di fronte ad una affermazione piú vigorosa della forma: «Per me l’essenza dell’arte è la forma, non la forma veste, velo, specchio e che so altro, manifestazione di una generalità distinta da lei, quantunque unita a lei; ma la forma, in cui l’idea è già passata, ed a cui l’individuo si è già innalzato: qui è la vera unità organica dell’arte. Ora la forma non è una idea, ma una cosa; e perciò il poeta ha innanzi delle cose e non delle idee»[24]. Allora parlava soprattutto di immagine in contrapposizione ad idea, ma certo la funzione mediatrice della situazione era stata voluta e prodotta dalla stessa spinta verso il concreto, dallo stesso bisogno di afferrare vita, di avere di fronte individui organici e viventi.


1 Scritti vari inediti a cura di B. Croce, Napoli 1898, II, p. 5.

2 Critica, Annata 1915, V, 17, 18, ristampato in Teoria e storia della letteratura, Bari 1926.

3 Teoria e storia della letteratura cit., I, p. 40.

4 Teoria e storia della letteratura cit., I, p. 41.

5 Teoria e storia della letteratura cit., I, p. 73.

6 Teoria e storia della letteratura cit., I, p. 136.

7 Sulla «situazione» si veda la nota di N. Giordano Orsini che prende lo spunto dal presente articolo (Civiltà moderna, 1942), ed ora G. Contini, nella introduzione agli Scritti critici del De S. (Torino 1949), p. 16.

8 La giovinezza di F. De Sanctis, Napoli 1889, p. 230.

9 Teoria e storia della letteratura cit., I, p. 174.

10 Teoria e storia della letteratura cit., I, pp. 199-200.

11 F. De Sanctis, Saggi critici, Napoli 1932, III, p. 434.

12 Teoria e storia della letteratura cit., II, pp. 73-74.

13 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 79.

14 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 86.

15 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 95.

16 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 125.

17 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 127.

18 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 128.

19 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 130.

20 Teoria e storia della letteratura cit., II, pp. 145-146.

21 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 150.

22 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 152.

23 Teoria e storia della letteratura cit., II, p. 171.

24 F. De Sanctis, Pagine sparse a cura di B. Croce, Bari 1934, p. 25.